Chi non ha mai avuto un’amica/o che dopo averci confidato la sua infernale vita di coppia non abbia sparato tra fiumi di lacrime le classiche frasi: “Con lui/lei sto male, ma senza di lui/lei sto peggio” oppure “soltanto lui/lei mi fa sentire viva/o”?
In Italia troviamo abbondante materiale sulla Dipendenza Affettiva. Grazie all’informazione accurata di molti libri e siti web abbiamo abbastanza chiaro il percorso distruttivo dei c.d. “amori malati”.
Ecco una sintetica definizione tratta dal libro dello psicologo Enrico Maria Secci, I narcisisti perversi e le unioni impossibili sul concetto[1] di questo tipo di dipendenza:
La Dipendenza Affettiva è un disturbo della sfera emotiva e relazionale caratterizzato dalla centralità di un “oggetto d’amore” verso il quale il soggetto dipendente nutre sentimenti disfunzionali di esclusività.
La Dipendenza Affettiva incide progressivamente sui livelli cognitivo, emotivo e comportamentale delle persone che la patiscono, sino a configurare un disturbo caratterizzato da sintomi riconoscibili. La sintomatologia produce cambiamenti nella quotidianità della persona e un generale peggioramento nei vari ambiti dell’esistenza, che può culminare nella compromissione grave del funzionamento complessivo della persona.
Come le altre dipendenze, le Dipendenze Affettive si instaurano in modo relativamente graduale e in una cornice di “normalità” . Le modificazioni del pensiero, delle emozioni e dei comportamenti si presentano prima come episodi isolati per poi strutturarsi in una sindrome vera e propria[2].
Lo psichiatra argentino Hugo Marietan ha coniato il termine “complementare” per rilevare il ruolo attivo di molti dipendenti affettivi nella costruzione della propria gabbia. In effetti, nei suoi articoli clinici la parola “vittima” appare di rado; la usa ad esempio per i casi di stupro o di violenza sui minori, ma non per chi stabilisce un rapporto del tipo affettivo caratterizzato dallo squilibrio totale sin dall’inizio:
Conviene sostituire il termine vittima perché le sue connotazioni abituali alludono alla passività senza tener conto degli individui che restano in questa posizione piuttosto per ragioni contingenti. Sarebbe a dire che la mia opinione è affermativa nel senso di porre l’accento sulla partecipazione attiva del partner dello psicopatico: colei che chiamiamo vittima è per certi versi complice dell’azione psicopatica.[3]
Per H. Marietan un individuo psicopatico entra in relazione con gli altri in tre modi diversi:
L’associativo: sarebbe quando uno psicopatico si rapporta con un altro psicopatico. Questo tipo di associazione accade quando il progetto che deve realizzare lo supera ampliamente come individuo. Il rapporto è teso e l’equilibrio sarà mantenuto finché persiste l’obiettivo. Ricordo che stiamo parlando di persone altamente narcisiste, egocentriche; di conseguenza, l’attaccamento è giustificato dall’obiettivo di entrambi.
Il secondo modo di rapportarsi con l’altro lo chiamo tangenziale, cioè, quando lo psicopatico incontra una vittima occasionale; quando esercita la sua psicopatia in funzione di un’azione del tipo delittuosa, una violazione, un raggiro, per esempio. Si tratta di un incontro ‘casuale’.
L’altro modo di rapportarsi, invece, è quello con il suo complementare: quando lo psicopatico incontra il suo complementare, oppure quando il complementare incontra il suo psicopatico. In questo caso il rapporto corre su un doppio binario ed è lontano dalla relazione vittima-carnefice; entrambi partecipano attivamente per mantenere il vincolo. Ritengo che la persona che riesce a restare accanto ad uno psicopatico non sia un’altra psicopatica come abitualmente si crede. Credo che chi abbia più possibilità di rapportarsi con uno psicopatico sia una persona nevrotica. Sono questi i rapporti meta stabili che durano nel tempo, anche se con esplosioni e squilibri lungo l’intera durata[4].
Per lo studioso ciò che unisce lo psicopatico al nevrotico è “una patologia della responsabilità. In uno c’è la mancanza, nell’altro c’è l’eccesso e la deformazione, in entrambi i casi, però, abbiamo un deficit della responsabilità.[5]
Nell’ articolo tradotto da questo blog abbiamo il concetto illustrato dalle parole dello psichiatra che riporta la durezza della testimonianza di una paziente. L’integra dell’articolo in spagnolo è disponibile su questo link http://www.marietan.com/material_psicopatia/relacion_psicopatas.htm
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Il modo complementare
Hugo Marietan
Concentriamoci su questo modo di rapportarsi dello psicopatico con l’altro in cui lui incontra la sua cornice. Parliamo di un incastro nel quale la sua azione psicopatica è maggiormente esercitata e di cosa lo “trattiene” nel rapporto. Come nella metafora enzima-substrato, chiave-serratura, lo psicopatico incontra in questo tipo di individuo il suo partner, la persona che lo completa, che colma i suoi vuoti, che lo soddisfa. Alla sua volta, il cosiddetto complementare, passa per l’identico processo: incontra un essere speciale che usa per colmare i suoi vuoti, traendo alla superficie le sue insoddisfazioni più profonde, più occulte, più (scusatemi per l’utilizzo del termine) animalesche. Ecco che il complementare trova qualcuno che accarezza la sua “bestiolina” imponendo i momenti in cui essa può manifestarsi.
Con l’utilizzo di questa parola voglio chiarire la componente irrazionale dentro di noi, cosa soggiace sotto la patina dell’educazione e della “civiltà”, ciò che resta latente perché controllato dalla carica inibitoria del “dover essere” anziché dell’essere, descritto da Nietzsche in Genealogia della morale come “un animale ingabbiato che colpisce le sbarre”.
Invito i lettori a evitare l’analogia con il concetto freudiano del “Es”, non per la mancanza di conoscenza della ricchezza di questa posizione, ma perché può portare a una lettura fuorviante del tema che affrontiamo ora.
Lo psicopatico, quindi, apre la gabbia e da il permesso alla bestiolina dentro il complementare di manifestarsi. Lo psicopatico illumina la zona d’ombra del complementare e lo invita all’azione. Questo è un effetto secondario dell’azione psicopatica e a scanso di equivoci non ha niente di solidario, di educativo, nel senso di qualcosa che vada a beneficio del complementare. Ribadisco – e lo farò sempre – che lo psicopatico lavora unicamente per sé stesso. Questo “mettere in moto la zona d’ombra” da una parte affascina il complementare e dall’altra lo lascia perplesso, solo dopo si vergogna: “come ho potuto fare tutto ciò?”. Per maggiori approfondimenti leggete “El complementario y su psicópata” in http://www.marietan.com.
Trascrivo questa testimonianza arrivata per e-mail perché mi sembra un modello dei tanti casi che ho seguito. Tutti i passi di questo tipo di rapporto sono descritti nella testimonianza che vi riporto.
Dal punto di vista di una persona comune il racconto è incredibile fino all’inverosimile. Fatto sta che la ripetizione di casi simili mi ha fatto concludere che ci troviamo di fronte a uno stile di rapporto ancora poco studiato e molto lontano dai rapporti del tipo nevrotico, psicotico o classicamente perversi. Esiste qui un gioco di potere esercitato dallo psicopatico sul complementare che è simile all’incantesimo, molto lontano dalla sofrologia. Mentre leggete la testuale testimonianza, anche se mettete dentro tutta la vostra empatia, il tutto vi risulterà incomprensibile: com’è possibile che una persona sopporti tanto, perché non è uscita prima del circuito, come ha potuto tollerare tutto ciò? Potete anche pensare che si tratta dell’invenzione di una mitomane. Purtroppo non è così. Ho seguito questo caso per diversi mesi e ho contattato i suoi familiari per certificarmi dei fatti. Andiamo al racconto. L’ho intitolato “Contro il vento e il mare”:
“Lo conosco da sei anni e inizialmente non l’avevo preso molto sul serio. Ero separata da un anno e per me era un ragazzo divertente con il quale uscivo una volta a settimana oppure ogni 15 giorni. La cosa strana è che sin dall’inizio mi faceva una certa tenerezza e una forte sensazione di provare ad aiutarlo. L’immagine che avevo (e che ho tuttora) era quella di un cagnolino abbandonato da raccogliere e consolare. Sin dal primo momento lui è stato allusivo e poco chiaro nel raccontare la sua storia, non avevo ben inquadrato dove vivesse o cosa facesse, lui mi ha raccontato di una certa azienda, di un presunto ufficio che contava 11 dipendenti, altrettanti soci e che non usciva mai dalla fase di avviamento, addirittura non aveva ancora un nome. Io, in realtà, lo consideravo più un partner sessuale che qualcos’altro (il sesso era ciò che mi legava a lui). Con il passare del tempo cominciai a interessarmi di più alla sua persona. Piano piano, per arrotondare, lui aveva iniziato ad affittare immobili per immigrati clandestini, ristrutturava degli appartamenti, ecc. Fin lì avevo l’idea che si trattasse di una persona molto indaffarata, il suo telefonino suonava a tutte le ore perché i dipendenti della sua azienda (presumibilmente più di 200) lo chiamavano per sollecitare questo e quello. Per quanto riguarda i soldi, se ogni tanto si presentava senza un centesimo in tasca, altre volte sfoggiava decine di migliaia di dollari come se niente fosse (arrivò a contare in un solo giorno 60 000 davanti a me). Un giorno l’ho riconosciuto guardando la TV. Si trattava di un programma che esibiva un’inchiesta fatta con l’utilizzo di telecamere nascoste: lo accusavano di essere, da circa un anno, il capo di un giro d’affari che guadagnava sull’immigrazione illegale. In questo programma lui si dimostrava – si vedeva chiaramente – totalmente insensibile al dolore e alla disgrazia altrui; non so spiegare come è riuscito a convincermi che il video era stato tagliato e editato dal programma per incastrarlo; io, “per il dubbio”, ho scelto di non vedere più il filmato. Suppongo che in questo periodo cominciavo a non voler vedere di quale pasta fosse fatto lui. Abbiamo continuato a stare insieme, anche se m’inorridiva uscire per strada con lui; la gente ci guardava e faceva dei commenti. Da parte sua, invece, vedevo la fierezza per la notorietà acquisita, mentre volevo soltanto che la terra m’inghiottisse. E così, lentamente, cominciò ad appropriarsi della mia persona, iniziò per chiedermi dei soldi, prese a restare a casa mia per dormire sempre di più, senza chiarire mai a che punto eravamo; mi chiedeva la macchina in prestito ogni fine settimana per andare “a lavorare” mentre restavo a casa con i miei figli. Arrivava sempre tarde, non ha mai rispettato la parola data, spariva, parlava ore e ore al telefono dalla terrazza, non conoscevo i suoi amici, la sua famiglia, nessuno; ogni tanto mi risvegliavo e lo lasciavo, gli dicevo che non avevo l’intenzione di condividere la mia vita con un fantasma; tuttavia tornavamo sempre insieme. Un giorno ho trovato una montagna di carte. Scoprì che aveva in corso una serie di cause di tutti i tipi, pignoramenti, sfratti, oltraggio a pubblico ufficiale, un processo per lesioni corporali a una cameriera alla quale aveva dovuto pagare per non scontare 15 giorni di carcere (secondo lui ha pagato soltanto perché non sopportava l’idea di stare lontano da me, affermava che l’esperienza del carcere sarebbe stata interessante, era una minaccia che non gli faceva alcun effetto), biglietti da visita di sexy shop e locali di lap dance, scontrini di alberghi, titoli di viaggio a S., zucchero in bustine da località che non avevo la più pallida idea del perché ci fosse stato, ecc. Da un anno ho scoperto che mi tradiva, subito dopo confessò che l’azienda non esisteva e che gli appartamenti non erano suoi, ammise che in realtà non aveva mai lavorato e che usava la mia macchina per uscire con la madre di suo figlio, dalla quale non si era mai separato (per 5 anni è stato bigamo). A lei aveva ingannato con la scusa che faceva la guardia giurata notturna di modo che la donna, con la quale stava durante la giornata, pulisse gli appartamenti gratuitamente per lui. Piombai in una spirale infernale in cui lo abbandonavo per le sue bugie e le sue infedeltà ma appena prometteva cambiare tornavamo insieme. La vita con lui era un inferno perché pareva godere della mia isteria e disperazione parlando telefonicamente con altre donne davanti a me e scambiandosi sms sotto il mio naso. L’angoscia senza di lui mi stava portando alla pazzia. Da un anno e mezzo lui possiede un’azienda del tipo piramidale; ho fiutato all’istante che non era qualcosa di pulito. Inizialmente ha mentito di essere un semplice dipendente, subito dopo che era il proprietario al 100% ma poi venne a gala che condivideva il 50% delle quote con un personaggio sinistro. Ero al corrente delle sue truffe e dei suoi debiti – un amico aveva realizzato un controllo bancario in cui il suo nome emergeva sull’elenco dei debitori per ben 17 volte – tuttavia, finché non mi fu chiaro di essere con un donnaiolo tutto il resto pareva non avere abbastanza gravità da convincermi a lasciarlo, ed è questo ciò che mi preoccupa di me stessa, come ho potuto pensare di restare accanto a un truffatore, un imbroglione, una persona senza alcun senso morale e che abbia reagito unicamente al mio orgoglio (il mio narcisismo ferito nel sapermi tradita) soffermandomi 8 mesi ancora in questo inferno. L’ho visto piangere e urlare di dolore giurando, dopo avermi confessato tutti i “peccati” commessi nel raggirare due donne contemporaneamente – fino a quel momento negava tutte le evidenze delle sue presunte infedeltà di modo cinico e perentorio – che sarebbe cambiato, che sarebbe stato un nuovo uomo, che mai più mi avrebbe mentito, che voleva essermi fedele, che ci saremo sposati, ecc. Non sapevo che in quei giorni stava già con un’altra e che voleva soltanto mettermi dentro un altro dei suoi affari, chiedermi di prendere un POS (lo strumento che si usa per far passare le carte di credito) a nome mio nella mia banca (poiché con i suoi antecedenti non glielo avrebbero mai dato). Bene, è riuscito a farmi aprire un conto convincendomi a dargli una procura per movimentarlo a nome mio. Dopo un po’ ha prestato il mio POS al proprietario di un puttig (bordello) di modo che sul mio conto apparvero 8000 euro di pagamenti a prostitute da parte dei loro clienti. Lui diceva di non comprendere perché mai mi sentivo così offesa, non capiva perché mi vergognassi. Sprofondavo in questa spirale di orrore giorno dopo giorno, la mia autostima era a terra. Le sue umiliazioni non erano più nascoste come all’inizio ma sbandierate e gravi; non arrivò a picchiarmi, anche se minacciava sempre. Alla madre del suo figlio frantumò un braccio in una lite e mandò in terapia intensiva un tipo perché lo aveva ipoteticamente aggredito. Aveva un modo suadente e incantevole ma alcune volte faceva paura, alla fine ero terrorizzata. Sfondò la porta del bagno quando mi rifugiai una volta, ero come impazzita, dubitavo della mia sanità mentale. Lui mi faceva sentire una squilibrata che s’inventava dei film quando presentavo le prove delle sue bugie e misfatti. Negava sempre tutto, girava la frittata e seminava il dubbio. Era un mistero come ci riusciva: se lui mi avesse detto che le vacche volavano giuro che mi sarei affacciata alla finestra per ore pur di veder passare almeno una. Mia famiglia era sconvolta, si accorgeva che la mia intera esistenza si era trasformata in isteria e ansia permanente; vivevo in attesa di lui e seguivo ciò che faceva 24 ore al giorno quasi senza dormire, lo pedinavo, mi appostavo per dimostrare ciò che era palese. Lui mi aveva soprannominata “la piccola cornuta” ed io lo inseguivo sempre di più. In tutta questa follia lui ha cominciato a darmi ciò di cui avevo bisogno per credere di essere qualcuno: mi ha presentato alla sua famiglia, sua madre, la sorella, il padre, i suoi zii… Siamo andati in chiesa per verificare se potevamo sposarci. Nessuno, in realtà, ha voluto credere alla nostra ipotetica unione e allora litigai con tutti, per me erano tutti cretini che remavano contro di noi, lo trasformai in una vittima. Lui mi racconta, come una barzelletta, che quando aveva 5 anni aveva mandato un compagno di banco della scuola in ospedale dopo avergli sferrato un calcio ai testicoli; il bambino era entrato in coma. Un’altra volta mi disse di essersi lanciato dalla finestra di un autobus in movimento perché il conduttore non aveva voluto fermarsi dove voleva lui, anche in questo caso aveva circa cinque o sei anni. La famiglia lo considera un iperattivo, tanto che oggi ringrazia suo padre per averlo “corretto” con la cintura. Racconta tutto ciò con spiazzante freddezza. Credevo fosse malato per il dolore di un’infanzia difficile, pensavo che la sua patologia avesse a che fare con tutto ciò, ma la realtà è che della sua infanzia non gli è mai importato granché. L’hanno messo in collegio all’età di 9 anni e non andavano a visitarlo nemmeno nel weekend. Sono disperata, piena di odio e di rancore, di dolore ma soprattutto sono preoccupata sul fatto di essere caduta così in basso. Sono una persona con solide convinzioni morali e legali, onesta dalla testa ai piedi, incapace di acquistarmi un video pirata per dare l’esempio ai miei figli, ciò nonostante ho condiviso “allegramente” la mia vita ai margini della delinquenza con una persona completamente amorale, alla quale piaceva infrangere le norme “tanto per”, (s’infiltrò all’Eurodisney manomettendo il tornello di controllo degli accessi quando avevamo le entrate del giorno pagate, sapeva che se non le usavamo in quel giorno erano perse, gli piaceva il brivido di farla franca), che usa tutte le persone che lo circondano come cose a sua disposizione, che mi ha truffato in tutti i sensi (ha un debito con me pari a 37000 mila euro che mai più tornerò a rivedere). Nonostante tutto penso a lui con compassione e ciò mi sconvolge perché, in realtà, non riesco a ricordarmi un solo momento intimo che non sia stato rovinato da chiamate sospette, dai suoi ritardi, dai suoi flirt con altre donne, da una bugia piccola o grande, insomma. Le mie amiche ridono di me, dicono che mi piace mettermi nei guai ed io sono spaventata perché sento che è così giacché ora, senza di lui, mi sento vuota, non c’è più l’adrenalina del terrore che provavo restando accanto a un uomo così. Lui mi ha resa dipendente dalle sue bugie, dalle sue finte prove d’amore e di affetto, dalle sue lusinghe vuote. Mi preoccupa anche l’altro aspetto della mia vita con lui, ciò che soddisfaceva la mia stupida vanità: entrare in un locale e vedere che le altre donne lo ammiravano, mentre mi sentivo una regina per avere accanto un bel tipo, un uomo sicuro di sé proprio accanto a me, a prescindere che si trattasse di una merda. Rendermi conto di tutto ciò è una cosa orribile, è difficile ammettere questo lato futile e sciocco in me, accettare che una simile idiozia poteva soddisfarmi. Mentre sto scrivendo mi rendo conto dei benefici che avevo accanto a lui e non mi piaci per niente ciò che ho scoperto di me stessa. Lui soddisfaceva la mia vanità, il mio desiderio di vivere intensamente, anche se malamente, il mio desiderio di avere un partner nonostante lui fosse l’opposto, se mi dava una falsa sensazione di sicurezza è perché lo vedevo capace di tutto.
Ora tutto è grigio intorno a me, mi prendo degli antidepressivi ma porto dentro un’angoscia che non riesco a levarmi di torno tranne che per alcuni momenti quando mi concentro sui miei figli e sul lavoro che, per fortuna, è come una benedizione. I miei figli sono meravigliosi (11 e 14 anni) e hanno molto sofferto con questa storia. A volte, però, non riesco a connettermi con i ragazzi nonostante i loro sforzi disperati per avvicinarsi a me. Mi sento tesa, come contaminata. Inoltre mi sento terribilmente in colpa nei loro confronti, per l’egoismo di aver consentito che il mio rapporto di coppia fosse più importante di loro, per non averci pensato, per aver giocato con il loro futuro economico prestando allegramente i soldi a un cretino. È come se li avessi derubati. Non mi capacito per averli lasciati soli giorno dopo giorno e notte dopo notte per stare con quell’uomo o appostata sotto la sua azienda per controllarlo. Era tutto talmente assurdo che pur essendo con lui, pur sapendo tutto ciò che si passava sotto il mio naso, avvertivo il bisogno di andare lì. Con l’ultima donna era arrivato a rinchiudersi nello studio mentre ero dall’altra parte dell’azienda. È uscito dallo studio sistemandosi i pantaloni. Non ho fatto una scenata perché non volevo umiliarmi davanti agli altri. Tutti lì sapevano cos’era successo e mi guardavano pieni di compassione e di pietà. Incassai l’ennesimo colpo senza fare una piega. È esattamente come dice lei nel suo articolo sul complementare, con lui stavo male, senza di lui sto peggio. Non so più che fare.”
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[1] “La problematica della dipendenza affettiva è recente: nasce sull’onda del successo, negli anni ’70, di un libro della psicologa americana Robin Norwood “Donne che amano troppo”. Tracce di tale tipo di dipendenza si possono rinvenire anche prima, ad opera di altri studiosi. Lo psicanalista Fenichel nel 1945 nel libro Trattato di psicanalisi delle nevrosi e psicosi introduceva il termine amoredipendenti ad indicare persone che necessitano dell’amore come altri necessitano del cibo o della droga.” Per ulteriori info visitate l’interessante sito http://www.maldamore.it/Dipendenza_affettiva.asp
[2] SECCI, Enrico Maria. Op. cit. Youcanprint, 2014, p.71-72
[3] http://www.marietan.com/material_psicopatia/mesa%20psicopatia%20aap%202006%20mazzuca.htm
[4] http://www.marietan.com/material_psicopatia/complementario.htm
[5] http://www.marietan.com/material_psicopatia/mesa%20psicopatia%20aap%202006%20mazzuca.htm
Che Dio ti benedica, grazie per questa traduzione e per tutte quelle in cui ti cimenti. Il materiale estero va portato in Italia, bisogna che mi ci impegni anche io. Concordo in pieno con questo psichiatra: si partecipa con loro, inconsapevolmente ma si partecipa.
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Concordo con te Mel, ci tengo alle tue traduzione dall’inglese!!! L’analisi della paziente è un pugno sullo stomaco per il livello di consapevolezza che ha raggiunto su cosa (purtroppo) gli piaceva della triste vita che conduceva accanto al perverso. Ci sto lavorando sulla traduzione di un’altro articolo di Marietan nel quale il concetto di “complementare” è ancora più chiaro. Subito dopo cerco un po’ di materiale sul tipo di approccio terapeutico consigliato!
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Lunga vita!
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